E' stata inaugurata giovedì 23 ottobre, alla Pinacoteca Comunale “Carlo Servolini” (Complesso di Villa Carmignani, via Garibaldi, 79 - Collesalvetti, la mostra “Alberto Calza Bini pittore e architetto tra Roma e Livorno. Lo spirito dell'arte classica, la tentazione del Liberty, la sfida del Divisionismo”, promossa e organizzata dal Comune di Collesalvetti con il contributo di Fondazione Livorno, curata da Francesca Cagianelli, con il patrocinio del Dipartimento di Architettura - DIDA - Università di Firenze, dell'Accademia delle Belle Arti di Roma e dell'Istituto Centrale per la Grafica-Ministero della Cultura.
Presieduta da un prestigioso Comitato Scientifico composto da Francesca Cagianelli, Conservatrice della Pinacoteca Comunale Carlo Servolini; Alberto Calza Bini, Fisico, Ricercatore ENEA; Alessandro Calza Bini, Architetto; Paolo Calza Bini, Sociologo, Professore Ordinario di Sociologia Economica del Lavoro, eredi e conservatori dell’opera dell’artista; Dario Matteoni, Storico dell’arte, già Direttore dei Musei Nazionali di Pisa; Alessandro Merlo, Docente Università di Firenze, Dipartimento di Architettura; Flavia Matitti, Docente Accademia di Belle Arti di Roma; Simone Quilici, Direttore del Parco Archeologico del Colosseo; Vieri Quilici, Architetto e Professore Ordinario di Composizione Architettonica, fondatore della Facoltà di Architettura dell'Università Roma Tre, la mostra costituisce un inedito affondo sulla stagione pittorica e grafica di Alberto Calza Bini tra Roma, Calvi dell’Umbria e Livorno, a partire dalla frequentazione del Regio Istituto di Roma tra il 1895 e il 1900, fino all’exploit in seno all’Esposizione dell’Associazione Italiana Acquafortisti e incisori a Londra, e alla Mostra dell’Autoritratto della Famiglia Artistica di Milano, entrambe del 1916.
Finora assurto a fama nazionale esclusivamente per la sua carriera di architetto e urbanista, ripercorsa con approfondita indagine storiografica da studiosi del calibro di Giorgio Ciucci, Cesare De Seta, Italo Insolera, Fabio Mangone, Paolo Nicoloso, Bruno Zevi, Alberto Calza Bini viene oggi restituito alla storia dell’arte del Novecento con riferimento specifico alla sua vocazione pittorica e acquafortistica, comprovata dalla partecipazione ad alcune prestigiose esposizioni nazionali, quali l’Esposizione Internazionale di Belle Arti della Società Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma; la Società Promotrice di Belle Arti di Genova, la Società Promotrice di Belle Arti di Torino, la Società Promotrice di Belle Arti di Firenze, l’Esposizione d’Arte dei Bagni Pancaldi di Livorno, l’Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” di Roma, la Permanente di Milano, La Famiglia Artistica di Milano, l’Esposizione d’incisione italiana pro Croce Rossa Italiana di Londra del 1916. Tappe fondamentali quest’ultime per l’affermazione dell’artista che, fuoriuscito dalle sale dell’Accademia di Belle Arti di Roma, all’epoca denominata, Regio Istituto d’Arte, si distingue con visioni paesaggistiche vibranti di quell’“anima vesperale” – tale è appunto il titolo dell’opera presentata a Roma nel 1904 ed esposta per la prima volta nella mostra colligiana - che è all’origine di un’intensa trasfigurazione emotiva dei prediletti scenari naturali, tra Calvi dell’Umbria e Livorno, dove approderà nel 1906, una volta nominato professore straordinario e ordinario nell'Istituto Tecnico di Livorno.
Trasferitosi con la moglie Irene Gilli, anch’essa valente pittrice e acquafortista, quasi sempre al suo fianco in occasione dei diversi appuntamenti espositivi, l’artista romano, all’epoca conosciuto come Alberto Calza - prima cioè di aggiungere il cognome della madre con Decreto Reale del 9 ottobre 1924 – dialoga in tali frangenti non solo con l’architetto Lorenzo Cecchi, anch’egli Docente all’Istituto Tecnico, e con l’erudito Pietro Vigo, ma anche con gli adepti del sodalizio afferente allo storico Caffè Bardi, tanto da essere ribattezzato da Gastone Razzaguta, con sagacia tutta labronica, “l’acquafortista in movimento”.
Ed è proprio nel corso della permanenza a Livorno che Calza elabora non solo una serie di capolavori dedicati ai panorami della portualità, inondati dallo sfolgorio del sole che ne trasfigura le superfici rendendole quinte fantastiche, ma firma anche, nella data fatidica del 1908 – come è noto, l’anno della scomparsa di Giovanni Fattori - un vero e proprio caposaldo divisionista dell’iconografia relativa agli spaccati più scenografici della città, Il Fosso Reale, selezionato non a caso quale icona della mostra: stavolta infatti è il cuore pulsante di Livorno, attraversato dalla via d’acqua che si addentra, lambendo la città cinquecentesca, fino alla Piazza Cavour, punto di passaggio tra il nucleo antico e i quartieri edificati nell’Ottocento, a trasformarsi, sotto lo sguardo appassionato e indagatore dell’artista, in un immaginifico fondale urbanistico, rivitalizzato ulteriormente dal brulichio della folla cittadina, restituita tramite abbreviazioni sintetiche sotto il riverbero di un sole irradiante, protagonista indiscusso della sospesa magia della veduta.
Sono circa settanta le opere presentate in anteprima assoluta alla Pinacoteca Comunale Carlo Servolini - riemerse dallo scrigno della Raccolta Calza Bini come tesori di una storia dell’arte preziosa e non scritta - imponenti non solo sotto l’aspetto dimensionale, ma anche e soprattutto, in particolare per quanto riguarda il filone marinistico, per la profondità prospettica dello sguardo dell’artista-architetto che dilata di volta in volta la visione del Porto di Livorno fino a intravederne gli orizzonti infiniti del Tirreno.
Tali opere equivalgono a uno straordinario percorso di inedite traiettorie, che ripercorrono con linguaggio aggiornato e un coraggioso gradiente di sperimentazioni luminose, le riflessioni avviate da Calza sui testi più avanzati del palcoscenico artistico contemporaneo, come nel caso di Plinio Nomellini, con cui stringerà un sodalizio pluriennale, tanto in occasione dell’allestimento delle Sale Livornesi del Padiglione Toscano all’Esposizione Regionale ed Etnografica alla Mostra Internazionale di Roma del 1911, quanto nei frangenti del Concorso per le Lunette del Vittoriano e quindi dell’Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” di Roma del 1913, episodi questi ultimi che testimoniano l’inedito ruolo di Calza, non solo in veste di abile regista e coordinatore istituzionale e artistico, ma anche di attento e aggiornato intellettuale alle prese tanto con i misteri dell’arte antica, quanto anche con le sfide della contemporaneità.
Riemergono quindi infinite tessere scientifiche volte a ricomporre un inedito mosaico di storia dell’arte nazionale, che rivela tuttavia inattesi fili conduttori con tutto un patrimonio artistico e architettonico scarsamente indagato del nostro territorio: ancora una volta Calza vi compare quale appassionato cultore dei monumenti antichi e, al contempo, collaboratore delle più prestigiose e innovative maestranze del Novecento: ci riferiamo all’incredibile episodio dell’Eremo della Sambuca, la cui atmosfera di sospesa spiritualità finì col coinvolgere l’artista romano in veste di Segretario della Commissione Conservatrice dei Monumenti per la Provincia di Livorno.
Ecco che il ritrovamento eccezionale, avvenuto nel corso delle approfondite indagini dei curatori, di un’inedita lettera di Calza su carta intestata della Commissione per la Conservazione dei Monumenti della Provincia di Livorno, indirizzata al Regio Soprintendente ai Monumenti per le Province di Pisa, Lucca-Livorno, con timbro postale 21 luglio 1912 offre la chiave per rileggere adeguatamente e definitivamente la complessa personalità dell’artista romano, stregato dalla grazia ineffabile dell’atmosfera gotica del romitorio, ma al contempo consapevole della necessità di colloquiare con gli avamposti dell’innovazione artistica, esemplificati, in questo specifico caso, dalla vetrata del vestibolo commissionata alle Fornaci di San Lorenzo. Tale prestigioso episodio si impone come testimonianza di un illuminato e autorevole sodalizio, quello cioè stretto dall’artista romano con Galileo Chini, proseguito fino alle soglie del secondo decennio, come attestano le inedite vetrate firmate, su commissione dello stesso Calza, per il complesso di abitazioni per la “Cooperative Leonardo” a Roma.
La 1a Sezione, dal titolo La musicalità della luce, l’impeto del movimento, il sogno dell’anima: l’anima vesperale di Alberto Calza Bini tra Calvi dell’Umbria e Livorno, si inaugura con il tormentato Autoritratto, datato 29/11/1901, programmaticamente impostato su assetti accademici, ma già vibrante di stesure drammaticamente frante, se è vero che di lì a poco l’artista firmerà una delle opere più sensazionali del suo corso divisionista, quell’Anima vesperale del 1903, contraddistinta da una pervasiva empatia rispetto ai prediletti panorami di Calvi dell’Umbria, presentata alla LXXIV Esposizione Internazionale di Belle Arti della Società Amatori e Cultori di Belle Arti in Roma del 1904. Il percorso espositivo decolla quindi con il già citato capolavoro dal titolo Il Fosso Reale di Livorno, che in epoca anticipatissima rispetto alle vicende del divisionismo labronico, inaugurava una magnifica quanto inedita inquadratura di uno degli spaccati più spettacolari della città di Livorno, contemperando la suggestione della scenografia architettonica con la restituzione sintetica del brulichio della folla, tra sentori di dinamismo ed euforia Belle Époque. Dominano nell’ambito di tale sezione le prime testimonianze acquafortistiche di Calza, da Il giardino delle Orsoline di Calvi (1906 ca.), esaltazione del buen retiro umbro, fino a Il Porto di Livorno (1907), caposaldo della celebrazione del panorama portuale avviato in coincidenza con l’approdo a Livorno in veste di docente di disegno dell’Istituto Tecnico di Livorno, ma soprattutto Il pesco, presentata alla Quadriennale di Torino del 1908, titolata in lastra con i versi tratti dall’omonima poesia di Giovanni Pascoli, inclusa nelle Myricae del 1891: “Tra i loro tronchi che mai niuno vede, / di là dell’erto muro e delle porte /ch’anno obliato i cardini, si crede/morta la Morte”. A concludere l’itinerario visivo organizzato da Calza nei meandri più caratteristici del reparto marinaresco, si distinguono alcuni audacissimi notturni quali in particolare Il Fanale: notturno con imbarcazioni nel Porto di Livorno (1908-1909), dove si attua mirabilmente la contaminazione tra la curiosità indagatrice rivolta dall’artista romano ai monumenti storici celebrati dall’erudito Pietro Vigo e la trasfigurazione epica del Tirreno, il cui splendore luminoso e cromatico sarà all’origine di una costante riflessione pittorica destinata a sfociare di lì a poco in una sorta di astrazione musicale.
La 2a Sezione, dal titolo Divisionismi e Secessione: Alberto Calza Bini e la nuova percezione pittorica del dinamismo, illustra quella battaglia espressiva sempre più appassionata per la restituzione di scenari naturali vibranti di melodie paesaggistiche che restituissero non solo “il sogno dell’anima, ma anche “la musicalità della luce”, incardinate tra due episodi di identica ambientazione, ma di tecnica complementare, quali le due versioni di Pineta di Livorno (1906-1908), entrambi omaggio agli itinerari turistici del territorio livornese decantati nelle monografie illustrate dall’erudito Pietro Vigo, e l’highlight costituito da Passeggiata all’Ardenza (1910-1913), dove la precedente inclinazione divisionista sembra compattarsi in stesure più larghe, di assonanza fauve, solo apparentemente in competizione con certi scenari di Armando Spadini, ma semmai più imparentabili con le sapienti sfaldature cromatiche concepite in epoca pressochè coeva da Ludovico Tommasi. Tra i memorabili inediti di tale sezione si impone l’Autoritratto (1910-1911), presentato alla Mostra dell’Autoritratto alla Famiglia Artistica di Milano del 1916, rispondente, alla pari di tanti altri, come enunciava Vittorio Pica nella sua arguta introduzione al catalogo, alla necessità di rinverdire i fasti della pittura di ritratto rispetto al filone paesaggistico. Di contro all’incalzante invettiva di Vittore Grubicy contro un genere pittorico inevitabilmente contaminato da tentazioni letterarie, il critico rivendicava infatti la dignità estetica dell’autoritratto: “Desiderio vanitoso? E perché non piuttosto manifestazione ingenua e indomabile di quell’istintivo bisogno, comune ad ogni classe di uomini, di ribellarsi allo spietato destino che ne confina appetiti ed aspirazioni, pensieri ed azioni, gioie e dolori in un giro più o meno breve di anni?”. Si conclude nel segno di un abbraccio simbiotico con Nomellini questa seconda sezione dedicata ad ambizioni e sperimentazioni tra Divisionismo e Secessione, esemplificati dal dittico Marina e Onda, entrambi ascrivibili tra il 1910 e il 1913, dove più serrata si mostra la determinazione stilistica verso quell’“impeto del dinamismo” posto ora ai vertici della riflessione di Calza in alternativa al Futurismo imperante.
La 3a Sezione dal titolo La divina impronta della Bellezza: il sodalizio tra Alberto Calza e Irene Gilli al tempo del Regio Istituto di Belle Arti di Roma, riassume, in un emblematico affronto, gli esiti del tirocinio accademico condotti dall’artista romano e dalla sua futura consorte Irene, rispettivamente sotto l’egida di Francesco Prosperi e di Domenico Bruschi, laddove certa raffinatezza disegnativa di impronta nazarena alla base dei primi studi di figura firmati da entrambi in epoca pressochè coeva, deve ascriversi a quella temperie di rinnovamento che vide proprio nell’ambito della Scuola di Figura Disegnata la sostituzione delle stampe di Morghen con “le riproduzioni fotografiche dei migliori disegni eseguiti dai Grandi Maestri del secolo XV e della prima metà del secolo XVI”, oltre che l’approdo a un indirizzo del “disegno dal rilievo” che privilegiasse il “disegno artistico”, quello cioè “che deve esprimere tutte le modificazioni prodotte nel rilievo dalla luce”, e si basasse sullo studio dei “calchi di ritratti della più efficace e bella scultura romana e della migliore statuaria greca”. Nelle magistrali e accattivanti composizioni accademiche esposte per la prima volta in questa sede, dagli interni di chiese firmati da Calza con magniloquenza scenografica e audace risoluzione luminosa, per finire con le anticipazioni liberty di Irene Gilli, quali Studio di grottesca, Roma (1901), o anche certe sue divagazioni neogotiche quali Porta Medioevale. Studio di composizione (1901-1902), si dovrà estrapolare in controluce tanto gli albori della futura vocazione decorativa e architettonica di Alberto, quanto le motivazioni più autentiche dell’indirizzo estetico della moglie che, tra Purismo, Preraffaellismo e Liberty, modula sapientemente il registro della sua produzione pittorica e grafica, senza mai dimenticare la lezione del padre Alberto Maso Gilli, certamente testimone e promotore amorevole dei suoi primi traguardi. Si intrecciano quindi in tale sezione ritratti, composizioni dall’antico, studi architettonici, realizzati all’unisono da Alberto e Irene, di pari passo con un rinnovamento del Regio Istituto coincidente con una prepotente istanza di autonomia, in virtù della quale “lo spirito del tempo era sempre più orientato verso la libertà di ricerca e di espressione nel mondo delle arti”.
La 4a Sezione dal titolo Irene Gilli, pittrice e acquafortista tra Preraffaellismo e Liberty costituisce il primissimo esaustivo affondo sulla personalità ignota, quanto affascinante e significativa, di Irene Gilli (Torino 1884 - Roma 1962), moglie di Alberto Calza, pittrice e acquafortista impostasi sulla scena espositiva italiana nei primi due decenni del Novecento, ma relegata finora in un cono d’ombra – per citare Flavia Matitti, autrice della riscoperta in catalogo – eppure indiscutibile protagonista nell’epoca giolittiana, così come nell’eclettico panorama culturale della Belle Epoque di un rinnovamento del gusto. Reduce dal tirocinio compiuto presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, Irene partecipa per circa quindici anni, alle principali esposizioni italiane e internazionali. Figlia d’arte di Alberto Maso Gilli (Chieri, Torino 1940 – Calvi dell’Umbria, Terni 1894), considerato tra i maggiori incisori dell’epoca - non a caso nominato nel 1885 Direttore della Regia Calcografia di Roma - Irene vanta come massima fonte storiografica la voce dedicatale per primo da Luigi Servolini nel suo celebre Dizionario illustrato degli incisori italiani moderni e contemporanei (Milano 1955). Il nucleo di opere inedite, restituite per la prima volta al pubblico della Pinacoteca Comunale Carlo Servolini, costituisce un’occasione unica per assaporare la variegata personalità dell’artista, debitrice certamente allo sfarzoso eclettismo ottocentesco e, al contempo, informata della temperie purista e del gusto preraffaellita, non senza tralasciare gli stilemi del Liberty. Un indimenticabile percorso espositivo si snoda dunque da opere pittoriche quali L’Immacolata (1900-1905), silhouette devozionale protesa verso l’azzurro del cielo, ma non esente da quell’impostazione verticale di ascendenza neogotica prediletta dal maestro Domenico Bruschi, né da coevi entori floreali, e Madonna (copia da Raffaello), pregevole attestazione della temperie nazarena e purista, forse direttamente ispirata, secondo quanto ipotizzato in catalogo, alla Madonna con Bambino del Sassoferrato, conservata presso la Galleria Borghese. Tale suggestivo percorso espositivo si avvale di alcuni capisaldi dell’intrigante e aggiornatissima produzione acquafortistica di Irene, testimoniata da esemplari quali Alba claustrale nel giardino delle Orsoline di Calvi (1906), Il Pozzo alle Pianacce, Livorno (1906), Le Tre Marie (1907), e salutata con entusiasmo da Raffaelle Calzini in occasione dell’Esposizione di Londra del 1916: “E’ fra le artiste italiane una delle poche che si dedichino alla pittura e all’incisione con serietà di intenti e con personalità”.
L’ampio e documentatissimo catalogo firmato da Silvana Editoriale (Cinisello Balsamo Milano) offre squarci assolutamente inediti e densi di approfondimenti scientifici, impreziositi da un corredo iconografico di straordinario interesse e di eccezionale rarità: si parte con il saggio di Francesca Cagianelli dal titolo La Primavera della Bellezza: l’inno programmatico di Alberto Calza tra le idealità dell’arte classica e la scommessa della Secessione, incentrato sulla rivalutazione della personalità pittorica e incisoria di Alberto Calza, attraverso prestigiosi traguardi espositivi nazionali e internazionali, oltre che sul censimento di tutta una bibliografia inedita che restituisce il magnifico e finora mai indagato ruolo dell’artista, tanto come regista illuminato delle Sale livornesi del Padiglione Toscano all’Esposizione Regionale ed Etnografica di Roma del 1911, quanto come protagonista del restauro dell’Eremo della Sambuca, di cui si celebrano per la prima volta sequenze addirittura sbalorditive rispetto alla storiografia finora nota.
Si prosegue con il saggio di Dario Matteoni dal titolo Alberto Calza e la stagione del Liberty a Livorno, che, partendo da un’attenta disamina della bibliografia critica più recente dedicata ad Alberto Calza Bini e, segnatamente, dalle interpretazioni avanzate in particolare nei saggi di Cesare De Seta, Giorgio Ciucci e Paolo Nicoloso, caratterizzati da un’ottica fortemente critica, giunge a evidenziare come solo in anni recenti si assista a una sistematica rilettura della cultura architettonica del primo dopoguerra. L’obiettivo resta dunque quello di proporre una scoperta storiografica che renda conto di inedite esperienze architettoniche in una stagione ancora lontana da diretti coinvolgimenti politici, segnati da aneliti di affermazione professionale e, aggiungiamo, di ambizioni del giovane architetto romano: torna dunque in luce, grazie alla rilettura ragionata dei primissimi edifici realizzati da Calza in ambito livornese, quali il Villino Paoletti e l’Istituto Santo Spirito, l’inedita collaborazione con le Fornaci di San Lorenzo e si inaugura un nuovo capitolo del Liberty a Livorno, forse più definitivamente avanzato rispetto alla temperie più eclettica dello Stabilimento delle Acque della Salute.
Si profila come un inedito consuntivo anche il saggio di Alessandro Merlo, dal titolo Il ruolo di Alberto Calza Bini nella costruzione dell’identità dell’architettura italiana tra le due guerre mondiali, che intende ripercorrere le tappe tanto dell’influenza esercitata dall’artista rispetto alla tutela della figura professionale dell’architetto, in qualità di Segretario Nazionale del Sindacato degli Architetti, quanto della definizione del suo percorso formativo, nei frangenti del servizio presso l’Amministrazione Centrale della Pubblica Istruzione e della Presidenza della Regia Scuola di Architettura di Napoli. Sulla scorta delle dichiarazioni contenute nell’intervento intitolato L’architetto nella vita moderna, tenuto il 19 febbraio 1933 alla Regia Scuola Superiore di Architettura di Firenze in occasione della celebrazione dell’Anno Accademico 1932-1933, si procede a delineare l’apporto di Calza Bini nell’ambito del dibattito sull’edilizia e sull’urbanistica, laddove, in pieno accordo con le posizioni assunte da illustri colleghi quali Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini, egli ribadisce il primato dell’architetto che, “circondato da squadre numerose di giovani aiutanti e di ingegneri provetti, di calcolatori e di misuratori, di meccanici e di elettricisti”, deve soprintendere l’opera, assimilandolo a un direttore d’orchestra che “con la bacchetta e con l'occhio, indirizza, riprende e corregge, conducendo alla conclusione polifonica”.
Si conclude con il saggio di Flavia Matitti, dal titolo Irene Gilli Calza Bini: pittrice e acquafortista “di bell’ingegno, ed amorosissima dell’arte”, inaugurato dall’inevitabile, quanto attualissima, riflessione sui meccanismi di rimozione della colta e raffinata personalità di Irene Gilli perfino nell’ambito della documentazione biografica e delle indagini scientifiche intitolate al Alberto, e quindi sviluppato attraverso una messe di informazioni inedite, riemerse tanto dall’Archivio Storico dell’Accademia di Belle Arti di Roma, quanto dall’Archivio privato Calza Bini (Calvi dell’Umbria). Se tra i più seducenti interrogativi l’autrice pone senz’altro la questione prioritaria del sodalizio, sfociato in una vera e propria collaborazione artistica, di Irene con il futuro marito, e quindi del ruolo probabilmente trainante di quest’ultima, riveste un’indiscutibile centralità il quesito relativo all’attribuzione del magnifico pastello raffigurante la giovanissima pittrice di fronte a un cavalletto, intenta a dipingere un’opera monumentale, forse a ribadire le sfide niente affatto femminili di un’ambiziosa carriera. Ma ancor più accattivanti si profilano le risposte delineate in catalogo, coincidenti non solo con l’ampio affresco dedicato al padre di Irene, Alberto Maso Gilli, formatosi all’Accademia Albertina, pittore di storia e affermato acquafortista, cultore di arti decorative e collaboratore di Alfredo D’Andrade in occasione della realizzazione del Borgo e della Rocca medioevale del Valentino per l’Esposizione nazionale del 1884, infine nominato Direttore della Regia Calcografia. Bagliori di un’inedita biografia che oggi ci consentono di assaporare con estrema consapevolezza il profilo artistico di Irene Gilli attraverso ben 23 inediti.
A illuminare una così ampia, complessa e inedita stagione artistica si snoda, parallelamente alla mostra, il Calendario Culturale dal titolo LIVORNO E IL PADIGLIONE TOSCANO ALL’ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE DI ROMA PER IL CINQUANTENARIO DELL’UNITÀ D’ITALIA. Il caso Calza tra Liberty, Divisionismo e Secessione, promosso dal Comune di Collesalvetti, ideato e curato da Francesca Cagianelli.
La mostra è visitabile gratuitamente tutti i giovedì, sabato-domenica, ore 15.30-18.30 e su prenotazione con visita guidata per piccoli gruppi: tel. 0586 980227 e 980174 – 392 6025703; pinacoteca@comune.collesalvetti.li.it; www.comune.collesalvetti.li.it .